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UGUAGLIANZA

UGUAGLIANZA

I predicatori dell’uguaglianza, del buonismo e dell’accoglienza a 360° sono quanto e più egoisti dei realisti.

Tra questi rientra:

  • Chi è meno uguale degli altri ed ha quindi tutto da guadagnare a diventare più uguale
  • Chi è così meno uguale degli altri da potersi permettere di accettare l’imposizione
  • Chi non capisce o finge di non sapere che l’uguaglianza negli umani è solo folle utopia, ma in compenso, se la fissazione lo ottenebra, può trovarla nelle macchine
  • Chi soffre a vedere soffrire gli altri e chi non sopporta di essere invidiato
  • Chi finge solo di combattere le inuguaglianze e lo sbandiera per motivi esclusivamente utilitaristici, per incantare le proprie folle come politici e religiosi di professione sanno fare.

Tutti ridicoli  e spesso anche pericolosi.

Tutti assieme appassionatamente e tutti concordi su un’unica condizione: che, se per caso il conseguimento dell’uguaglianza e del buonismo avesse un costo, questo andrebbe ovviamente a carico degli altri.

In realtà il vero egualitarista  gode già solo ad esserlo, ma soprattutto  a farlo, in prima persona, a proprio carico e senza pubblicità. E’ egoista anche lui! Ma buono.

Chi non rispetta questa semplice regola è un falso, un maestro di retorica o un idealista.

Così come negli Stati non autoritari non  esistono (o non dovrebbero esistere) imposizioni di ideali, ma norme sul vivere civile, così come nelle religioni che non si prestano ad estremismi non esistono (o non dovrebbero esistere) obblighi sul cosa fare, ma al massimo su cosa non fare, così non può esserci una piccola e temporanea meteora  di politico o religioso che impone, a suo uso e consumo ed a spese della comunità, il buonismo ad ogni costo; può solo esigere la non reità.

Ad onor del vero in aiuto dei nostri politici accorre la nostra Costituzione (cui loro attingono con piacere), la quale sancisce l’obbligo della solidarietà, di cui su quella tributaria se ne fa cenno all’articolo POLITICA del presente testo. Sull’argomento ho tratto un sunto che riporto: Dato il suo carattere pervasivo, il principio di solidarietà non si esaurisce nelle sole previsioni costituzionali relative ai doveri inderogabili ma in una serie aperta di istituti giuridici . Un’autorevole dottrina ha distinto tra una solidarietà «doverosa» (o «fraterna») e una «pubblica» (o «paternalista»). La prima opererebbe su un piano orizzontale e si tradurrebbe in «un moto doveroso e cooperante da parte dei cittadini nell’adempimento delle loro varie solidarietà. La solidarietà pubblica o paternalistica, invece, opererebbe nell’ambito del rapporto tra Stato e cittadini e imporrebbe l’attuazione del principio di eguaglianza sostanziale . Prendendo in considerazione entrambe le prospettive, pertanto, doveri inderogabili, diritti sociali, interventi volti a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana costituiscono tutte forme di espressione del medesimo principio solidarista.

Da quanto letto si desume che gli ideatori della Costituzione abbiano proprio voluto rendere doverosa la solidarietà per il perseguimento di un nobilissimo fine che è intuibile. Osservo qui, così come considerato in merito alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che dalla approvazione di entrambi i superiori provvedimenti, naturale conseguenza delle ultime guerre, sono trascorsi quasi settanta anni e parrebbe opportuno, se non indispensabile, apporre alle norme citate degli adeguati aggiornamenti. Una seconda osservazione è che  l’interpretazione che ne danno i politici è eufemisticamente definibile allegra e originale: tutte le volte che gli stessi intravedono uscite, non previste nei bilanci statali (ma previste dagli Stati seri, compreso le spese dovute agli eventi naturali ad esempio) queste vengono automaticamente caricate su chi è già abbondantemente massacrato dalle tasse.

Cioè lo Stato pretende il rispetto della Costituzione quando si tratta di doveri dei cittadini, ma lo dimentica  quando si tratta di diritti dei cittadini. La Carta all’art.4 sancisce il diritto al lavoro di ogni cittadino, con ciò intendendo non già l’obbligo dello Stato di assegnare un lavoro pubblico a ciascun suo cittadino, cosa pensabile solo in uno stato comunista, ma certamente il suo superiore intervento al fine di rimuovere gli ostacoli e promuovere le condizioni che consentano a chiunque di poter entrare nel mercato del lavoro. Lo Stato, come è noto invece, nel campo delle agevolazioni alle nuove iniziative continua a brillare per l’assenza , mentre con la sua fame impositiva fa di tutto per intralciare l’eccellente imprenditoria privata nazionale. Però la solidarietà la pretende! Così come la facoltà di mantenere in eterno spese ingentissime per mantenere il proprio apparato burocratico e non! La conseguenza inevitabile è che qualsiasi spesa, vecchia e nuova, va a ricadere sui soliti noti.

Ancora una volta è bene evidenziare che il buonismo, inteso come sentimento di bontà, così come ogni altro sentimento come l’amore, l’amicizia ecc. e non solo, non possono essere obbligati, perché i sentimenti (provenienza del termine da “sentire”) sono assolutamente naturali e quindi è utopistico imporli. L’imposizione politica dell’accoglienza, in quanto sentimento, non ha quindi senso, anzi rappresenta una vergogna. Ma non per lo Stato o, per essere più esatti, per quei politici che governano! E una spiegazione c’è, e ci sarà sempre tutte le volte che  c’è di mezzo lui: il dio denaro (degli altri) estorto facendo leva sui sentimenti del buonismo, dell’accoglienza, dell’uguaglianza, così edulcorando il furto. Il governicchio di turno imporrebbe anche altri sentimenti se solo  potesse lucrarci a qualsiasi livello!

Dopo avere palesemente dimostrato di non possedere medesimi ideali e nobiltà dei nostri padri costituenti, ribadisco di essere anzi decisamente convinto ed orgoglioso del mio pragmatismo, che mi regala la ragione tutte le volte (tante) che la pratica si scontra con la teoria. Gli esempi più eclatanti è facile rinvenirli nelle leggi, scritte a tavolino, o figlie di isterie emozionali temporanee o frutto di esasperanti ed indecorosi compromessi tra diversi gruppi politici o tra i medesimi colleghi dell’esecutivo, con la conseguenza di dare spesso adito a  sentenze di giudici tanto fantasiose quanto  inique.

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